TRIBUNALE DI COMO Sezione II civile Il giudice del lavoro dott. Laura Tomasi, nella causa R.G.L. 825 /2014 tra Mario Garofalo e Italia Hospital S.P.A. (Avv. Albe'Giorgio, Gianduia Gabriele) Ricorrente e Direzione territoriale del lavoro di Como (Avvocatura Stato Milano) Resistente A scioglimento della riserva assunta all'udienza del 22.1.2015, letti gli atti e documenti di causa, ha pronunciato la seguente ordinanza ex art. 23 L. 87/1953 Con ricorso depositato il 13.8.2014, il dott. Mario Garofalo e Italia Hospital SPA hanno proposto opposizione ex art. 615 c.p.c., onde inibire l'inizio dell'esecuzione di due cartelle di pagamento (rispettivamente n. 097 2014 0078378778000 e n. 097 2014 0078378778001), dell'importo di euro 261.836,83 ciascuna, notificate da Equitalia il 14.7.2014. In punto di fatto, la parte opponente ha premesso che le cartelle sono state emesse per il pagamento - da parte del Garofalo quale obbligato principale e di Italia Hospital spa quale obbligata in solido - di sanzioni amministrative che trovano titolo nella sentenza C. App. Milano n. 778/2009. Detta pronuncia, in riforma della sentenza Trib. Como n. 64/2007, ha respinto le opposizioni presentate dagli interessati avverso le ordinanze ingiunzione n. 283/2006, 284/2006 e 273/2006 irrogate dalla Direzione Territoriale del Lavoro (di seguito: DTL) di Como per violazioni in materia di orario di lavoro dei dipendenti dell'Ospedale Moriggia Pelascini di Gravedona. Gli opponenti hanno dato atto che la sentenza C. App. Milano n. 778/2009 era stata confermata dalla Corte di cassazione con sentenza n. 11574/2014 depositata il 23.5.2014. In punto di diritto, la parte opponente ha preliminarmente denunciato l'irregolarita' o nullita' dell'iscrizione a ruolo per carente indicazione, nelle cartelle, del riferimento alle norme violate e a quelle relative al trattamento sanzionatorio. Nel merito, essa ha allegato che le sanzioni oggetto dell'ordinanza ingiunzione n. 273/2006, ammontanti a € 176.610,00, erano state calcolate in base all'art. 18 bis d.lgs. 66/2003 (nel testo introdotto dall'art. 1 d.lgs. 213/2004), dichiarato costituzionalmente illegittimo con sentenza n. 153/2014, depositata il 4.6.2014 e pubblicata in Gazz. Uff. l'11.6.2014. Ad avviso della parte opponente, poiche' ex art. 30 comma 3 l. 87/1953 "le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione", con il solo limite dei "rapporti esauriti" (Cass. n. 6626/1984), non potendo considerarsi "esaurito" il rapporto giuridico alla base delle sanzioni alla data della pronuncia della Corte costituzionale, la stessa spiegherebbe efficacia nel giudizio di opposizione, determinando l'illegittimita' delle sanzioni amministrative irrogate in base al citato art. 18 bis d.lgs. 66/2003 e, di conseguenza, l'irregolarita' o nullita' delle cartelle opposte nella parte relativa alla somma di € 176.610,00. EQUITALIA e' rimasta contumace. Si e' costituita in giudizio la DTL, evidenziando che il rapporto in causa doveva ritenersi esaurito e pertanto immune dagli effetti della declaratoria di' illegittimita' costituzionale dell'art. 18 bis e che in ogni caso detta declaratoria avrebbe comportato una mera modificazione del trattamento sanzionatorio, con riviviscenza delle sanzioni in precedenza previste dall'art. 9 RDL 692/1923, potenzialmente piu' afflittive di quelle in concreto irrogate. All'udienza del 13.11.2014, alla luce delle sentenze Menarini c. Italia (27.9.2011, ric. 43509/08) e Grande Stevens c. Italia (4.3.2014, ric. 18640/10), il giudice ha sottoposto alle parti la questione della natura "penale" ai sensi della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (di seguito: CEDU) delle sanzioni di cui all'art. 18 bis d.lgs. 66/2003, nonche' della possibile illegittimita' costituzionale, per contrasto con l'art. 117 cost. e gli artt. 6 e 7 della CEDU, dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953, nella parte in cui limita alle sentenze penali - nel senso inteso dall'ordinamento italiano - irrevocabili di condanna la cessazione dell'esecuzione in caso di declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma posta a base della condanna. Nelle note difensive presentate nel termine impartito, la parte opponente ha sostenuto la natura penale delle sanzioni previste dall'art. 18 bis cit., traendone in via principale la possibilita' e necessita' di applicazione diretta da parte del giudice dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953. In via subordinata, la parte opponente ha chiesto al giudicante di' sollevare questione di legittimita' costituzionale dell'art. 30 comma 4 per violazione degli artt. 117 comma 1 Cost. e 7 CEDU (stante l'assenza di base legale della sanzione amministrativa di natura sostanzialmente penale per effetto della declaratoria di incostituzionalita') e/o per violazione degli artt. 3 e 25 comma 2 Cost. (per violazione del principio di uguaglianza attesa l'identita' di situazioni in caso di declaratoria di illegittimita' costituzionale di norma sanzionatoria penale e amministrativa, e per assenza, per effetto di detta declaratoria, di legge vigente preesistente al fatto commesso), nonche', in via ulteriormente subordinata, per violazione dell'art. 3 1. 689/1981 (stante l'inapplicabilita' alle sanzioni amministrative del principio di retroattivita' della lex mitior). Nelle proprie note difensive, la parte opposta ha ritenuto inapplicabile alla fattispecie di causa l'art. 30 comma 4 1. 87/1953, in ragione della natura amministrativa e pecuniaria - e non limitativa della liberta' personale - delle sanzioni di cui all'art. 18 bis d.lgs. 66/2003 e della non rilevanza in specie della sentenza Grande Stevens c. Italia, relativa alla diversa questione del ne bis in idem. Cio' premesso in punto di svolgimento del processo, ritiene il giudicante rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale, per contrasto con l'art. 117 comma 1 Cost. (in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU), nonche' con l'art. 25 comma 2 e l'art. 3 cost. dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953, nella parte in cui limita alle sentenze penali - nel senso inteso dall'ordinamento italiano - irrevocabili la cessazione dell'esecuzione e in caso di declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma posta a base della condanna. Quanto alla rilevanza della questione, si osserva anzitutto che la causa non puo' essere decisa sulla base delle sole eccezioni e deduzioni introdotte dalla parte opponente nel ricorso in opposizione (nullita'/irregolarita' del titolo esecutivo e mancato esaurimento del rapporto giuridico sotteso). Non pare infatti fondata l'eccezione di nullita' o irregolarita' del titolo esecutivo per carente indicazione, nelle cartelle di pagamento impugnate, del riferimento alle norme violate e a quelle relative al trattamento sanzionatorio. Le cartelle (doc. 1 fasc. ricorrente) sono motivate per relationem rispetto alla sentenza C. App. Milano n. 778/2009 e sulla legittimita' di tale forma motivazionale si e' positivamente espressa la S.C. (Cass. SU 11722/2010). La pronuncia n. 778/2009, poi, contiene il riferimento alle norme violate, e le ordinanze ingiunzione, cui a sua volta la sentenza fa riferimento, indicano le sanzioni amministrative irrogate, di talche' non si e' verificata alcuna violazione del diritto di difesa. Cio' e' del resto desumibile anche dalle ampie e articolate deduzioni che la parte opponente e' stata in grado di presentare nel presente giudizio. Nemmeno appaiono fondate le considerazioni della parte opponente circa l'applicabilita' in specie del disposto dell'art. 30 comma 3 l. 87/1953 secondo cui "le norme dichiarate incostituzionali non possono avere applicazione dal giorno successivo alla pubblicazione della decisione". Infatti, secondo la consolidata interpretazione datane dalla dottrina e dalla giurisprudenza, l'art. 30 comma 3 vieta al giudice di fare applicazione di una norma dichiarata incostituzionale nei giudizi dinanzi ad esso "pendenti" o dinanzi ad esso legittimamente promuovibili, secondo le norme processuali vigenti; in altre parole, la disapplicazione puo' avere luogo, se per il rapporto giuridico regolato dalla norma incostituzionale puo' essere ancora esperibile un giudizio. La "retroattivita'" della dichiarazione di incostituzionalita' non investe, invece, i rapporti c.d. "esauriti", per cui cioe' non e' piu' possibile instaurare un nuovo giudizio, proprio come accade nel caso in esame, per avvenuta formazione del giudicato (v. ex multis da ultimo Cass. civ. sez. III n. 9977/2014). In specie, alla data di deposito della sentenza Corte cost. n. 153/2014 (4.6.2014), il rapporto obbligatorio costituitosi tra la parte opponente e la DTL di Como per effetto dell'emissione delle ordinanze-ingiunzione impugnate si era definitivamente esaurito, con il deposito, il 23.5.2014, della sentenza di rigetto n. 11574/2014 della Corte di cassazione, e il conseguente passaggio in giudicato della sentenza n. 778/2009 della Corte di appello di Milano. A fronte di tale dato, e' irrilevante che il ruolo oggi opposto fosse stato formato in data precedente (13.2.2014: v. doc. 1 fasc. ricorrente) al passaggio in giudicato della sentenza C. App. Milano n. 778/2009, in quanto, alla data di notifica delle cartelle di pagamento (14.7.2014), il rapporto obbligatorio che costituisce il presupposto del titolo esecutivo risultava ormai definitivamente consolidato, dal 23.5.2014. Nemmeno l'esperibilita' dell'opposizione ex art. 615 c.p.c., dimostra il non esaurimento del rapporto, contrariamente a quanto sostenuto dalla parte opponente. L'opposizione all'esecuzione, infatti, ben puo' essere esperita anche quando gli accertamenti alla base del titolo esecutivo sono definitivi per passaggio in giudicato della pronuncia del giudice di cognizione (cfr. Cass. civ. sez. III n. 15852/2010). Pertanto, dall'esperibilita' dell'opposizione all'esecuzione non puo' affatto inferirsi la non definitivita' della situazione giuridica in base alla quale il titolo e' stato emesso. In definitiva, ad avviso del giudicante, poiche' il rapporto tra la parte opponente e la DTL deve ritenersi esaurito alla data di pubblicazione della sentenza 153/2014 della Corte costituzionale, la stessa non pare suscettibile di spiegare effetti sulla fattispecie dedotta in giudizio. Solo ritenendo applicabile alla fattispecie di causa l'art. 30 comma 4 l. 87/1953, secondo cui "quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano la esecuzione e tutti gli effetti penali" sarebbe possibile predicare l'idoneita' della pronuncia Corte cost. n. 153/2014 a determinare l'illegittimita' della sanzione amministrativa adottata ex art. 18 bis comma 4 (nella versione introdotta dall'art. 1 d.lgs. 213/2004) d.lgs. 66/2003 (pari a euro 176.610,00), e la conseguente nullita' delle cartelle di pagamento opposte, nella parte relativa a tale somma, nonostante il consolidamento del rapporto obbligatorio tra l'odierna parte opponente e la DTL. Va infine sottolineato che l'applicazione dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 - e la conseguente non applicazione delle sanzioni previste dall'art. 18 bis comma 4 (nella versione introdotta dall'art. 1 d.lgs. 213/2004) d.lgs. 66/2003 - comporterebbe la reviviscenza di una disciplina sanzionatoria - quella di cui all'art. 9 RDL 692/1923 - piu' mite rispetto a quella dichiarata costituzionalmente illegittima. L'art. 18-bis comma 4, nella versione applicabile ratione temporis (quella appunto introdotta dall'art. 1 d.lgs. 213/2004), punisce infatti la violazione delle prescrizioni dell'art. 7 d.lgs. 66/2003 in tema di riposo giornaliero dei lavoratori con la sanzione amministrativa da 105 euro a 630 euro". (1) Diversamente, l'art. 9 RDL 692/1923 prevedeva una sanzione amministrativa da lire cinquantamila a lire trecentomila (ossia da 25 a 155 euro), con incremento qualora essa si riferisse a piu' di cinque lavoratori ovvero si fosse verificata nel corso dell'anno solare per piu' di cinquanta giorni. Come gia' accertato dalla Corte costituzionale nella citata sentenza n. 153/2014, "le sanzioni amministrative di cui all'art. 18-bis del d.lgs. n. 66 del 2003 sono piu' alte di quelle irrogate nel sistema precedente; e, trattandosi di un'operazione di puro confronto aritmetico, non sussistono dubbi interpretativi". La maggiore mitezza del previgente sistema sanzionatorio emerge anche dall'ordinanza ingiunzione n. 273/2006 emessa nei confronti dell'odierna parte opponente: per il periodo dal gennaio 2004 all'1 settembre 2004, in cui era in vigore l'art. 9 RDL 692/1923, 796 giornate di accertata violazione della normativa sul riposo giornaliero dei lavoratori sono state punite con la sanzione amministrativa di euro 1032, laddove, per il periodo dal 2 settembre 2004 a marzo 2005, in vigenza dell'art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003, 841 giornate di accertata violazione hanno ricevuto una sanzione pari a euro 176.610,00 (v. ordinanza ingiunzione n. 273/2006 sub doc. 12 fasc. ricorrente). Considerato dunque che l'applicazione alla fattispecie di causa dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 e' suscettibile di determinare la proponibilita' e la decisione della controversia, consentendo alla parte opponente di conseguire un petitum non altrimenti ottenibile (applicazione di sanzioni sensibilmente piu' miti), ma che la possibilita' per questo giudice di farne uso dipende dall'accoglimento della questione di costituzionalita', e' rilevante la questione di legittimita' costituzionale sollevata con la presente ordinanza. E' quasi solo il caso di specificare, da ultimo, che la presenza di una sentenza passata in giudicato non funge da limite all'ammissibilita' della presente questione, dal momento che essa ha per oggetto proprio la norma che attribuisce definitivita' al rapporto dedotto in giudizio. Quanto alla non manifesta infondatezza della questione, si osserva anzitutto che, se prese in considerazione all'interno del sistema della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, le sanzioni amministrative di cui all'art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003 (nella versione introdotta dall'art. 1 d.lgs. 213/2004) potrebbero essere fondatamente qualificate come "penali". Com'e' noto, infatti, la Corte di Strasburgo da tempo risalente ha ritenuto di natura "penale" - ai fini dell'applicazione delle garanzie dell'equo processo (art. 6 CEDU) - anche sanzioni formalmente qualificate come amministrative negli ordinamenti degli Stati parte della CEDU, in base ai criteri (tra loro alternativi e non cumulativi) della natura del precetto violato e della gravita' della sanzione. In particolare, secondo la Corte europea dei diritti dell'uomo una sanzione - pur qualificata come amministrativa nell'ordinamento nazionale - deve essere ritenuta di natura "penale" ai sensi della Convenzione ove la norma che la commina sia rivolta alla generalita' dei consociati e persegua uno scopo preventivo, repressivo e punitivo e non meramente risarcitoria e/o ove la sanzione suscettibile di essere inflitta comporti per l'autore dell'illecito un significativo sacrificio, anche di natura meramente economica e non consistente nella privazione della liberta' personale (v. in particolare C.edu, 6.8.1976, Engel c. Paesi Bassi, nonche', inter alia, C.edu, 21.2.1984, Ozturk c. Germania e 1.5.2005, Ziliberberg c. Moldavia). In applicazione di tali criteri, nelle sentenze Menarini c. Italia (27.9.2011, rie. 43509/08) e Grande Stevens c. Italia (4.3.2014, ric. 18640/10) la Corte europea dei diritti dell'uomo ha ritenuto di natura "penale" ai sensi dell'art. 6 CEDU, rispettivamente le sanzioni amministrative in materia di concorrenza di cui all'art. 15 1. 287/1990 e le sanzioni amministrative in materia di manipolazione del mercato di cui all'art. 187 ter d.lgs. 58/1998. In specie, ritiene il giudicante che le sanzioni previste dall'art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003 (nella versione introdotta dall'art. 1 d.lgs. 213/2004) debbano qualificarsi come "penali" alla luce della giurisprudenza della Corte europea. In primo luogo, infatti, la citata disposizione, rivolta alla generalita' dei consociati, persegue uno scopo non meramente risarcitorio, ma repressivo e preventivo rispetto al fenomeno del c.d. "sfruttamento del lavoro", in chiave di tutela dell'interesse, di rilevanza costituzionale (artt. 1, 4 e 36 Cost.), allo svolgimento dell'attivita' lavorativa secondo tempistiche compatibili con l'esigenza di recupero delle energie psicofisiche del lavoratore e, in definitiva, secondo modalita' consone alla dignita' del lavoratore. In secondo luogo, la sanzione astrattamente irrogabile puo' raggiungere un rilevante importo, in conseguenza della moltiplicazione dell'importo, compreso nella forbice edittale di 105- 630 euro, in ragione del numero di giornate di violazione. E difatti, nella fattispecie oggetto di causa, la sanzione ammonta alla ragguardevole cifra di euro 176.610,00. Dalla natura "penale" ai sensi della CEDU delle sanzioni di cui all'art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003 discende, ad avviso del giudicante, l'applicabilita' alle stesse del principio di legalita' penale di cui all'art. 7 CEDU, ai sensi del quale i reati e le pene debbono essere previsti dalla legge. Come chiarito dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, onde rispettare il principio di legalita' penale, la norma sanzionatoria deve avere una "sufficiente base legale nel diritto nazionale", ipotesi che non ricorre quando sussista una "flagrante in osservanza o arbitrarieta' nell'applicazione" delle disposizioni normative nazionali (C.edu, 3.5.2007, Custers, Devereaux e Turk c. Danimarca, § 84). La carenza di "base legale" (legai basis) della norma sanzionatoria penale puo' derivare dal contrasto tra la stessa e una norma internazionale - incluse quelle della CEDU - o con una norma interna di rango costituzionale (cfr. C.edu, 22.3.2001, Streletz c. Germania; 22.3.2001, K.-H.VV. c. Germania). Dalle pronunce citate si puo' trarre la conclusione che, poiche' la legalita' europea non tollera sanzioni fondate su norme che siano chiaramente illegittime o illegittimamente applicate al caso concreto, il contrasto di una disposizione nazionale con la fonte costituzionale priva la prima di "base legale" e la rende non legittima ai sensi dell'art. 7 CEDU. Pertanto, come evidenziato in dottrina, la declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma sanzionatrice comporta il venir meno, ex tunc, della base legale (legal basis) della sanzione penale comminata e la sua illegittimita' ai sensi dell'art. 7 CEDU (in tal senso cfr. anche Cass. pen. ord. n. 1782/2015, su cui v. amplius infra). Ora, nell'ordinamento nazionale, la disposizione che consente di rimuovere gli effetti della sanzione penale irrogata in base a una disposizione dichiarata costituzionalmente illegittima - e dunque carente di base legale - anche dopo il passaggio in giudicato della sentenza di condanna, e' l'art. 30 comma 4 1. 87/1953. Detta disposizione, secondo la piu' recente giurisprudenza di legittimita' penale (Cass. SU n. 42858/2014, imp. Gatto e Cass. SU n. 18821/2014 imp. Ercolano) impone la non esecuzione della pena inflitta con sentenza passata in giudicato, in caso di declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma sul (solo) trattamento sanzionatorio, applicata per la determinazione della pena. In proposito, la S.C. ha condivisibilmente evidenziato (sent. 42858/2014 cit.) che, mentre l'introduzione di un trattamento sanzionatorio piu' mite a opera del legislatore non puo' avere effetti sulle sentenze di condanna passate in giudicato, ostandovi l'art. 2 comma 4 c.p. (e non essendo tale preclusione contraria alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo, che nel caso Scoppola c. Italia ha espressamente riconosciuto nel giudicato un limite all'applicazione retroattiva della lex mitior) del tutto diversa e' la fattispecie della declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma sul trattamento sanzionatorio. Invero, "gli effetti della declaratoria di incostituzionalita' non sono paragonabili a quelli dello ius superveniens, poiche' la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale inficia fin dall'origine [...] la disposizione impugnata", pertanto "mentre l'applicazione della sopravvenuta legge penale piu' favorevole, che attiene alla vigenza normativa, trova un limite invalicabile nella sentenza irrevocabile, cio' non puo' valere per la sopravvenuta declaratoria di illegittimita' costituzionale, che concerne il diverso fenomeno della invalidita' (sent. 42858/2014 cit.). Ha evidenziato la SC che "la norma costituzionalmente illegittima viene espunta dall'ordinamento proprio perche' affetta da una invalidita' originaria. Cio' impone e giustifica la proiezione "retroattiva", sugli effetti ancora in corso di rapporti giuridici pregressi, gia' da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia di incostituzionalita', la quale certifica la definitiva uscita dall'ordinamento di una norma geneticamente invalida. Una norma che deve dunque considerarsi tamquam non fuisset, percio' inidonea a fondare atti giuridicamente validi, per cui tutti gli effetti pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata, sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono essere rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti in cui cio' sia possibile, non potendo essere eliminati gli effetti irreversibili perche' gia' compiuti e del tutto consumati" (sent. ult. cit.). In conclusione, poiche' secondo la SC, ""il divieto di dare esecuzione ad una pena prevista da una norma dichiarata illegittima dal Giudice delle leggi e' [...] un principio di rango sovraordinato - sotto il profilo della gerarchia delle fonti - rispetto agli interessi sottesi all'intangibilita' del giudicato", "successivamente a una sentenza irrevocabile di condanna, la dichiarazione d'illegittimita' costituzionale di una norma penale diversa dalla norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio, comporta la rideterminazione della pena, che non sia stata interamente espiata, da parte del giudice dell'esecuzione" (sent. ult. cit.). Venendo al caso di specie, la qualificazione delle sanzioni oggetto di causa come "penali" ai sensi della CEDU, e la conseguente non conformita' delle stesse all'art. 7 CEDU per carenza di legal basis (stante la declaratoria di illegittimita' costituzionale della norma sanzionatoria di cui all'art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003) comporta, ad avviso del giudicante, la necessita' che l'ordinamento consenta di rimuoverle, nonostante il passaggio in giudicato dell'accertamento prodromico all'irrogazione delle stesse. Sennonche', l'unico strumento utilizzabile per rimuovere le sanzioni in oggetto - ossia l'art. 30 comma 4 1. 87/1953 - si riferisce (come piu' diffusamente argomentato infra) alle sole sanzioni penali intese nel senso "stretto" previsto dall'ordinamento italiano, e non alle sanzioni amministrative che abbiano natura "penale" ai sensi della CEDU. Proprio perche' l'art. 30 comma 4 non si applica alle sanzioni amministrative qualificabili come "penali" ai sensi della CEDU, detta disposizione si pone in contrasto con i parametri costituzionali interposti di cui agli artt. 6 e 7 CEDU e, per il loro tramite, dell'art. 117 comma 1 Cost. Come prospettato dalla parte opponente nelle proprie note difensive dell'8.1.2015, sussiste altresi' il contrasto dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953, nella parte in cui limita il proprio ambito applicativo alle sanzioni qualificate come penali dall'ordinamento interno, con l'art. 25 comma 2 e l'art. 3 Cost. Dalla qualificazione come "penali" delle sanzioni oggetto di causa nel sistema delineato dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo dovrebbe coerentemente derivare infatti, ad avviso del giudicante, l'estensione a dette sanzioni delle garanzie previste dall'ordinamento interno per le sanzioni qualificate come penali dal diritto nazionale, tra cui anche l'art. 30 comma 4 1. 87/1953, disposizione che, consentendo la retroattivita' degli effetti della dichiarazione di incostituzionalita' anche oltre il limite del giudicato, costituisce stretta attuazione del precetto dell'art. 25 comma 2 Cost. secondo cui "nessuno puo' essere punito se non in forza di una legge che sia entrata in vigore prima del fatto commesso" (sulla qualificazione dell'art. 30 comma 4 cit. come disposizione attuativa dell'art. 25 comma 2 Cost. v. Cass. pen. N. 977/2011, imp. Hauohu). Ed invero, come sottolineato dalla parte opponente nelle note difensive, se una norma incostituzionale e' da considerarsi come mai venuta in essere nell'ordinamento, qualunque sanzione che derivi da essa non puo' ritenersi irrogata in base ad una legge entrata in vigore prima del fatto commesso. Difatti, secondo la S.C., i principi costituzionali che regolano l'intervento repressivo penale «impediscono di ritenere costituzionalmente giusta, e percio' eseguibile, anche soltanto una frazione della pena, se essa consegue all'applicazione di una norma contraria a Costituzione" (sent. ult. cit.). Ora, posto che le sanzioni ex art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003, se prese in considerazione nel sistema della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, assumono la natura di sanzioni penali, l'inapplicabilita' dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 ridonda nella violazione dell'art. 25 comma 2 Cost., in quanto comporta l'esecuzione di una "pena" conseguente all'applicazione di una norma contraria alla Costituzione e, pertanto, non valida gia' al momento della commissione del fatto. Risulta altresi' violato l'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo dell'ingiustificata disparita' di trattamento di situazioni analoghe e della ragionevolezza. Come osservato dalla parte opponente, consentire il superamento del giudicato, al fine di garantire l'applicazione in via esecutiva di un trattamento sanzionatorio piu' mite, solo per quelle norme - colpite da declaratoria di incostituzionalita' - che comminino sanzioni formalmente qualificate come penali e non anche per quelle norme che irroghino sanzioni che, formalmente qualificate in modo diverso, abbiano in realta' natura penale, significherebbe trattare situazioni sostanzialmente identiche (sanzioni formalmente penali e sanzioni sostanzialmente penali) in maniera difforme senza un'effettiva, o ragionevole giustificazione. Non ritiene invece il giudicante di sollevare eccezione di legittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 3 Cost., dell'art. 1 l. 689/1981, nella parte in cui non prevede la retroattivita' della lex mitior per le sanzioni amministrative, come invece prospettato in via subordinata dall'odierna parte opponente. Pare infatti al giudicante che, come chiarito dalla piu' recente giurisprudenza di legittimita' (v. sent. 42858/2014 cit.: v. supra), la problematica dell'applicazione retroattiva della legge piu' favorevole rimanga distinta rispetto a quella dell'efficacia retroattiva della declaratoria di illegittimita' costituzionale - con eventuale reviviscenza del trattamento sanzionatorio piu' mite in precedenza previsto - e, pertanto, non sia rilevante nella presente controversia. Non si ritiene, infine, che l'evidenziato contrasto dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 con l'art. 117 comma 1 (in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU), l'art. 25 comma 2 e 3 l'art. Cost. possa essere risolto attraverso un'interpretazione dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 conforme alla CEDU e ai parametri costituzionali. Non ignora il giudicante che, nella recente ordinanza n. 1782/2015 (di rimessione alla Corte costituzionale per prospettata illegittimita' degli artt. 187 bis comma 1 d.lgs. 58/1998 e 649 c.p.c, per violazione degli artt. 117 comma 1 Cost. e 4 Protocollo n. 7 alla CEDU) la Corte di cassazione ha affermato che, in caso di declaratoria di illegittimita' costituzionale della base legale della sanzione amministrativa pecuniaria irrogata ex art. 187 bis, sarebbe possibile l'applicazione diretta dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 sulla base di una interpretazione "convenzionalmente orientata" della disposizione, imposta dalla natura "penale", ai sensi della CEDU, di detta sanzione. Va tuttavia evidenziato che la tesi dell'applicabilita' alle sanzioni amministrative del disposto dell'art. 30 comma 4 cit. e' stata per la prima volta - a quanto consta al giudicante - prospettata dalla SC nella citata ordinanza, in via meramente ipotetica (non essendo alcuna declaratoria di legittimita' allo stato intervenuta) e al solo fine di evidenziare la rilevanza della questione di legittimita' sollevata dalla SC. Non constano altre pronunce conformi all'ordinanza n. 1782/2015, mentre risulta un, pur risalente, precedente di segno contrario (v. Cass. civ. sez. III n. 458/1994: "l'art. 30 comma 4, l. 11 marzo 1953 n. 87, laddove stabilisce che quando in applicazione della norma dichiarata incostituzionale e' stata pronunciata sentenza irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti penali, non puo' trovare applicazione al di fuori del campo penale e quindi con riferimento a sanzioni di natura amministrativa"). Pertanto, la tesi prospettata da Cass. pen. N. 1782/2015 non possiede quei caratteri di stabilita' e consolidamento atti a qualificarla come "diritto vivente" idoneo a determinare l'inammissibilita' della presente questione di legittimita' costituzionale. Cio' posto, ritiene il giudicante che l'interpretazione convenzionalmente e costituzionalmente conforme trovi un limite nel tenore letterale della disposizione di legge da interpretare (v. in tal senso Corte cost. sentenze n. 91 e 232/2013; ordinanza n. 112/2013: «l'univoco tenore della norma segna il confine in presenza del quale il tentativo interpretativo deve cedere il passo al sindacato di legittimita' costituzionale»). Se l'interpretazione adeguatrice deve svolgersi secondo i canoni ermeneutici di cui all'art. 12 delle Preleggi, quando l'attribuzione di un significato al testo, che rispetti il senso letterale della legge, produca una norma non oscura o non assurda, e' preclusa un'interpretazione diversa da quella letterale, non essendo ammissibile l'interpretazione integrativa o correttiva. In specie, come gia' ritenuto dalla S.C. (sentenza 458/1994 cit.), il tenore letterale dell'art. 30 comma 1 1. 87/1953, che discorre di " sentenza irrevocabile di condanna" e di " effetti penali" rende chiaro che la disposizione si applica solo alle sanzioni qualificate come penali nell'ordinamento interno. Anche il riferimento al canone ermeneutico dell'intenzione del legislatore avvalora tale tesi, per la semplice constatazione che, alla data di promulgazione della legge n. 87/1953, l'Italia non aveva ancora ratificato la CEDU, ne' si era prodotta l'evoluzione giurisprudenziale che avrebbe condotto la Corte di Strasburgo a qualificare come "penali" talune tipologie di sanzioni amministrative. A fronte di tale, chiaro dato letterale, non pare possibile estendere, in via di interpretazione conforme, l'ambito applicativo dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 alle sanzioni formalmente non qualificate come penali nell'ordinamento interno, anche se da qualificarsi come tali secondo i parametri della CEDU. Non induce, infine a una diversa conclusione la circostanza che il d.lgs. 66/2003 sia stato adottato in attuazione delle direttive 93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione dell'orario di lavoro, in quanto il denunciato contrasto dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 con l'art. 117 comma 1 (in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU), l'art. 25 comma 2 e l'art. 3 Cost. non determina la necessita' di disapplicare la disposizione in questione, ma, semmai, quella di estenderne l'ambito applicativo a fattispecie ivi non incluse. Pertanto, la circostanza la disciplina del d.lgs. 66/2003 sia attuativa del diritto UE non muta i termini della questione - che non si risolve in un mero problema di disapplicazione del diritto interno contrastante con la fonte sovranazionale (artt. 6 e 7 CEDU, principi generali del diritto UE ex art. 6 TUE) - ne' elimina la necessita' di sollecitare l'intervento della Corte costituzionale. Avendo dato esito negativo il tentativo di interpretazione conforme, e non essendo possibile fare applicazione della disposizione ritenuta in contrasto con la CEDU e la Costituzione, va sollevata questione di legittimita' costituzionale, per violazione dell'art. 117 comma 1 (in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU), dell'art. 25 comma 2 e dell'art. 3 Cost. dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953, nella parte in cui lo stesso non prevede la propria applicabilita' alle sentenze irrevocabili con le quali e' stata inflitta una sanzione amministrativa qualificabile come "penale" ai sensi della CEDU (nel caso di specie, la sanzione prevista dall'art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003, nella versione introdotta dall'art. 1 d.lgs. 213/2004). (1) Non vengono in rilievo nella presente fattispecie le successive modifiche all'art. 18 bis introdotte dall'art. 41 del D.L. 112/2008 conv. in l. 133/2008, dall'art. 7 l. 183/2010 e dell'art. 14, comma 1, lettera c), DL 145/2013 conv. in l. 9/2014.