TRIBUNALE DI COMO 
 
 
                          Sezione II civile 
 
    Il giudice del lavoro dott. Laura Tomasi, nella causa R.G.L.  825
/2014 tra Mario Garofalo e Italia Hospital S.P.A. (Avv. Albe'Giorgio,
Gianduia Gabriele) Ricorrente 
    e 
    Direzione territoriale  del  lavoro  di  Como  (Avvocatura  Stato
Milano) Resistente 
    A scioglimento della riserva assunta all'udienza del 22.1.2015, 
    letti gli atti e documenti di causa, 
    ha pronunciato la seguente ordinanza ex art. 23 L. 87/1953 
    Con ricorso depositato il 13.8.2014, il dott.  Mario  Garofalo  e
Italia Hospital SPA hanno proposto opposizione ex  art.  615  c.p.c.,
onde inibire l'inizio dell'esecuzione di due  cartelle  di  pagamento
(rispettivamente  n.  097  2014   0078378778000   e   n.   097   2014
0078378778001), dell'importo di euro 261.836,83 ciascuna,  notificate
da Equitalia il 14.7.2014. 
    In punto di fatto, la parte opponente ha premesso che le cartelle
sono state emesse per il pagamento -  da  parte  del  Garofalo  quale
obbligato principale e di Italia  Hospital  spa  quale  obbligata  in
solido - di sanzioni amministrative che trovano titolo nella sentenza
C. App. Milano n. 778/2009. 
    Detta pronuncia, in riforma della sentenza Trib. Como n. 64/2007,
ha respinto le opposizioni presentate dagli  interessati  avverso  le
ordinanze ingiunzione n. 283/2006, 284/2006 e 273/2006 irrogate dalla
Direzione Territoriale del Lavoro  (di  seguito:  DTL)  di  Como  per
violazioni  in  materia  di   orario   di   lavoro   dei   dipendenti
dell'Ospedale Moriggia Pelascini di Gravedona. 
    Gli opponenti hanno dato atto che la sentenza C. App.  Milano  n.
778/2009 era stata confermata dalla Corte di cassazione con  sentenza
n. 11574/2014 depositata il 23.5.2014. 
    In punto  di  diritto,  la  parte  opponente  ha  preliminarmente
denunciato l'irregolarita' o nullita'  dell'iscrizione  a  ruolo  per
carente indicazione,  nelle  cartelle,  del  riferimento  alle  norme
violate e a quelle relative al trattamento sanzionatorio. 
    Nel  merito,  essa  ha   allegato   che   le   sanzioni   oggetto
dell'ordinanza ingiunzione n. 273/2006, ammontanti  a  €  176.610,00,
erano state calcolate in base all'art. 18  bis  d.lgs.  66/2003  (nel
testo   introdotto   dall'art.   1   d.lgs.   213/2004),   dichiarato
costituzionalmente illegittimo con sentenza n.  153/2014,  depositata
il 4.6.2014 e pubblicata in Gazz. Uff. l'11.6.2014. 
    Ad avviso della parte opponente, poiche' ex art. 30  comma  3  l.
87/1953 "le  norme  dichiarate  incostituzionali  non  possono  avere
applicazione  dal  giorno   successivo   alla   pubblicazione   della
decisione", con il solo limite  dei  "rapporti  esauriti"  (Cass.  n.
6626/1984), non potendo considerarsi "esaurito" il rapporto giuridico
alla base delle  sanzioni  alla  data  della  pronuncia  della  Corte
costituzionale, la stessa  spiegherebbe  efficacia  nel  giudizio  di
opposizione,    determinando    l'illegittimita'    delle    sanzioni
amministrative irrogate in base al citato art. 18 bis d.lgs.  66/2003
e, di conseguenza, l'irregolarita' o nullita' delle cartelle  opposte
nella parte relativa alla somma di € 176.610,00. 
    EQUITALIA e' rimasta contumace. 
    Si e' costituita in giudizio la DTL, evidenziando che il rapporto
in causa doveva ritenersi esaurito e pertanto  immune  dagli  effetti
della declaratoria di' illegittimita' costituzionale dell'art. 18 bis
e che in ogni caso detta declaratoria  avrebbe  comportato  una  mera
modificazione del trattamento sanzionatorio, con  riviviscenza  delle
sanzioni  in  precedenza   previste   dall'art.   9   RDL   692/1923,
potenzialmente piu' afflittive di quelle in concreto irrogate. 
    All'udienza del 13.11.2014, alla luce delle sentenze Menarini  c.
Italia  (27.9.2011,  ric.  43509/08)  e  Grande  Stevens  c.   Italia
(4.3.2014, ric. 18640/10), il giudice ha  sottoposto  alle  parti  la
questione della natura "penale" ai sensi  della  Convenzione  europea
per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo   e   delle   liberta'
fondamentali (di seguito: CEDU) delle sanzioni di cui all'art. 18 bis
d.lgs.    66/2003,    nonche'    della    possibile    illegittimita'
costituzionale, per contrasto con l'art. 117 cost. e gli artt. 6 e  7
della CEDU, dell'art. 30 comma 4  1.  87/1953,  nella  parte  in  cui
limita alle sentenze  penali  -  nel  senso  inteso  dall'ordinamento
italiano - irrevocabili di condanna la cessazione dell'esecuzione  in
caso di declaratoria di  illegittimita'  costituzionale  della  norma
posta a base della condanna. 
    Nelle note difensive presentate nel termine impartito,  la  parte
opponente ha sostenuto  la  natura  penale  delle  sanzioni  previste
dall'art. 18 bis cit., traendone in via principale la possibilita'  e
necessita' di applicazione diretta da parte del giudice dell'art.  30
comma 4 1. 87/1953. 
    In via subordinata, la parte opponente ha chiesto  al  giudicante
di' sollevare questione di legittimita' costituzionale  dell'art.  30
comma 4 per violazione degli artt. 117 comma 1 Cost. e 7 CEDU (stante
l'assenza di base legale  della  sanzione  amministrativa  di  natura
sostanzialmente   penale   per   effetto   della   declaratoria    di
incostituzionalita') e/o per violazione degli artt. 3 e  25  comma  2
Cost. (per violazione del principio di uguaglianza attesa l'identita'
di   situazioni   in   caso   di   declaratoria   di   illegittimita'
costituzionale di norma sanzionatoria penale e amministrativa, e  per
assenza,  per  effetto  di  detta  declaratoria,  di  legge   vigente
preesistente  al  fatto  commesso),  nonche',  in  via  ulteriormente
subordinata,  per  violazione  dell'art.  3   1.   689/1981   (stante
l'inapplicabilita' alle  sanzioni  amministrative  del  principio  di
retroattivita' della lex mitior). 
    Nelle proprie  note  difensive,  la  parte  opposta  ha  ritenuto
inapplicabile alla fattispecie di causa l'art. 30 comma 4 1. 87/1953,
in  ragione  della  natura  amministrativa  e  pecuniaria  -  e   non
limitativa della liberta' personale - delle sanzioni di cui  all'art.
18 bis d.lgs. 66/2003 e della non rilevanza in specie della  sentenza
Grande Stevens c. Italia, relativa alla diversa questione del ne  bis
in idem. 
    Cio' premesso in punto di svolgimento del  processo,  ritiene  il
giudicante rilevante e non manifestamente infondata la  questione  di
legittimita' costituzionale, per contrasto con  l'art.  117  comma  1
Cost. (in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU),  nonche'  con  l'art.  25
comma 2 e l'art. 3 cost. dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953, nella parte
in  cui  limita   alle   sentenze   penali   -   nel   senso   inteso
dall'ordinamento    italiano    -    irrevocabili    la    cessazione
dell'esecuzione  e  in  caso  di   declaratoria   di   illegittimita'
costituzionale della norma posta a base della condanna. 
    Quanto alla rilevanza della questione, si osserva  anzitutto  che
la causa non puo' essere decisa sulla base  delle  sole  eccezioni  e
deduzioni introdotte dalla parte opponente nel ricorso in opposizione
(nullita'/irregolarita' del titolo esecutivo  e  mancato  esaurimento
del rapporto giuridico sotteso). 
    Non pare infatti fondata l'eccezione di nullita' o  irregolarita'
del titolo esecutivo  per  carente  indicazione,  nelle  cartelle  di
pagamento impugnate, del riferimento alle norme violate  e  a  quelle
relative al trattamento sanzionatorio. 
    Le  cartelle  (doc.  1  fasc.  ricorrente)  sono   motivate   per
relationem rispetto alla sentenza C. App. Milano n. 778/2009 e  sulla
legittimita' di tale forma motivazionale si e' positivamente espressa
la S.C.  (Cass.  SU  11722/2010).  La  pronuncia  n.  778/2009,  poi,
contiene  il  riferimento  alle  norme  violate,   e   le   ordinanze
ingiunzione, cui a sua volta la sentenza fa riferimento, indicano  le
sanzioni amministrative irrogate, di talche'  non  si  e'  verificata
alcuna violazione del diritto di difesa. Cio' e' del resto desumibile
anche dalle ampie e articolate deduzioni che la  parte  opponente  e'
stata in grado di presentare nel presente giudizio. 
    Nemmeno appaiono fondate le considerazioni della parte  opponente
circa l'applicabilita' in specie del disposto dell'art. 30 comma 3 l.
87/1953 secondo cui "le norme dichiarate incostituzionali non possono
avere applicazione dal giorno  successivo  alla  pubblicazione  della
decisione". 
    Infatti, secondo  la  consolidata  interpretazione  datane  dalla
dottrina e dalla giurisprudenza, l'art. 30 comma 3 vieta  al  giudice
di fare applicazione di una  norma  dichiarata  incostituzionale  nei
giudizi dinanzi ad esso "pendenti" o dinanzi ad  esso  legittimamente
promuovibili, secondo le norme processuali vigenti; in altre  parole,
la disapplicazione puo' avere luogo, se  per  il  rapporto  giuridico
regolato dalla norma incostituzionale puo' essere  ancora  esperibile
un giudizio. 
    La "retroattivita'" della  dichiarazione  di  incostituzionalita'
non investe, invece, i rapporti c.d. "esauriti", per cui cioe' non e'
piu' possibile instaurare un nuovo giudizio, proprio come accade  nel
caso in esame, per avvenuta formazione del giudicato (v. ex multis da
ultimo Cass. civ. sez. III n. 9977/2014). 
    In specie, alla data di deposito della sentenza  Corte  cost.  n.
153/2014 (4.6.2014), il rapporto  obbligatorio  costituitosi  tra  la
parte opponente e la DTL di Como  per  effetto  dell'emissione  delle
ordinanze-ingiunzione impugnate si era definitivamente esaurito,  con
il deposito, il 23.5.2014, della sentenza di  rigetto  n.  11574/2014
della Corte di cassazione, e il conseguente  passaggio  in  giudicato
della sentenza n. 778/2009 della Corte di appello di Milano. 
    A fronte di tale dato, e' irrilevante che il ruolo  oggi  opposto
fosse stato formato in data precedente (13.2.2014:  v.  doc. 1  fasc.
ricorrente) al passaggio in giudicato della sentenza C.  App.  Milano
n. 778/2009, in quanto, alla  data  di  notifica  delle  cartelle  di
pagamento (14.7.2014), il rapporto obbligatorio  che  costituisce  il
presupposto del  titolo  esecutivo  risultava  ormai  definitivamente
consolidato, dal 23.5.2014. 
    Nemmeno l'esperibilita'  dell'opposizione  ex  art.  615  c.p.c.,
dimostra il non esaurimento del  rapporto,  contrariamente  a  quanto
sostenuto dalla parte opponente. 
    L'opposizione all'esecuzione, infatti, ben puo'  essere  esperita
anche quando gli accertamenti alla base  del  titolo  esecutivo  sono
definitivi per passaggio in giudicato della pronuncia del giudice  di
cognizione (cfr.  Cass.  civ.  sez.  III  n.  15852/2010).  Pertanto,
dall'esperibilita' dell'opposizione all'esecuzione non  puo'  affatto
inferirsi la non definitivita' della  situazione  giuridica  in  base
alla quale il titolo e' stato emesso. 
    In definitiva, ad avviso del giudicante, poiche' il rapporto  tra
la parte opponente e la DTL deve  ritenersi  esaurito  alla  data  di
pubblicazione della sentenza 153/2014 della Corte costituzionale,  la
stessa non pare suscettibile di spiegare  effetti  sulla  fattispecie
dedotta in giudizio. 
    Solo ritenendo applicabile alla fattispecie di  causa  l'art.  30
comma 4 l. 87/1953, secondo cui "quando in applicazione  della  norma
dichiarata   incostituzionale   e'   stata    pronunciata    sentenza
irrevocabile di condanna,  ne  cessano  la  esecuzione  e  tutti  gli
effetti  penali"  sarebbe  possibile  predicare   l'idoneita'   della
pronuncia Corte cost.  n.  153/2014  a  determinare  l'illegittimita'
della sanzione amministrativa adottata ex art. 18 bis comma 4  (nella
versione introdotta dall'art. 1 d.lgs. 213/2004) d.lgs. 66/2003 (pari
a euro 176.610,00), e  la  conseguente  nullita'  delle  cartelle  di
pagamento opposte, nella parte relativa a tale somma,  nonostante  il
consolidamento  del  rapporto  obbligatorio   tra   l'odierna   parte
opponente e la DTL. 
    Va infine sottolineato che l'applicazione dell'art. 30 comma 4 1.
87/1953 - e la conseguente non applicazione delle  sanzioni  previste
dall'art. 18 bis comma  4  (nella  versione  introdotta  dall'art.  1
d.lgs. 213/2004) d.lgs. 66/2003 - comporterebbe  la  reviviscenza  di
una disciplina sanzionatoria - quella di cui all'art. 9 RDL  692/1923
-  piu'  mite  rispetto  a   quella   dichiarata   costituzionalmente
illegittima. 
    L'art.  18-bis  comma  4,  nella  versione  applicabile   ratione
temporis (quella appunto introdotta  dall'art.  1  d.lgs.  213/2004),
punisce infatti la violazione delle prescrizioni dell'art.  7  d.lgs.
66/2003 in tema di riposo giornaliero dei lavoratori con la  sanzione
amministrativa da 105 euro a 630 euro". (1) 
    Diversamente,  l'art.  9  RDL  692/1923  prevedeva  una  sanzione
amministrativa da lire cinquantamila a lire trecentomila (ossia da 25
a 155 euro), con incremento qualora  essa  si  riferisse  a  piu'  di
cinque lavoratori ovvero si  fosse  verificata  nel  corso  dell'anno
solare per piu' di cinquanta giorni. 
    Come gia'  accertato  dalla  Corte  costituzionale  nella  citata
sentenza n. 153/2014, "le sanzioni  amministrative  di  cui  all'art.
18-bis del d.lgs. n. 66 del 2003 sono piu' alte  di  quelle  irrogate
nel sistema precedente;  e,  trattandosi  di  un'operazione  di  puro
confronto aritmetico, non sussistono dubbi interpretativi". 
    La maggiore mitezza del previgente sistema  sanzionatorio  emerge
anche dall'ordinanza ingiunzione n.  273/2006  emessa  nei  confronti
dell'odierna parte opponente: per il periodo dal gennaio  2004  all'1
settembre 2004, in cui era in  vigore  l'art.  9  RDL  692/1923,  796
giornate  di  accertata  violazione  della   normativa   sul   riposo
giornaliero  dei  lavoratori  sono  state  punite  con  la   sanzione
amministrativa di euro 1032, laddove, per il periodo dal 2  settembre
2004 a marzo 2005,  in  vigenza  dell'art.  18  bis  comma  4  d.lgs.
66/2003, 841 giornate di  accertata  violazione  hanno  ricevuto  una
sanzione pari a euro 176.610,00 (v. ordinanza ingiunzione n. 273/2006
sub doc. 12 fasc. ricorrente). 
    Considerato dunque che l'applicazione alla fattispecie  di  causa
dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953 e'  suscettibile  di  determinare  la
proponibilita' e la decisione della  controversia,  consentendo  alla
parte opponente di conseguire un petitum  non  altrimenti  ottenibile
(applicazione  di  sanzioni  sensibilmente  piu'  miti),  ma  che  la
possibilita'   per   questo   giudice   di    farne    uso    dipende
dall'accoglimento della questione di costituzionalita', e'  rilevante
la questione di legittimita' costituzionale sollevata con la presente
ordinanza. 
    E' quasi solo il caso di specificare, da ultimo, che la  presenza
di  una  sentenza  passata  in  giudicato   non   funge   da   limite
all'ammissibilita' della presente questione, dal momento che essa  ha
per  oggetto  proprio  la  norma  che  attribuisce  definitivita'  al
rapporto dedotto in giudizio. 
    Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione,  si
osserva anzitutto che, se prese  in  considerazione  all'interno  del
sistema della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, le  sanzioni
amministrative di cui all'art. 18 bis comma 4 d.lgs.  66/2003  (nella
versione introdotta dall'art. 1 d.lgs.  213/2004)  potrebbero  essere
fondatamente qualificate come "penali". 
    Com'e' noto, infatti, la Corte di Strasburgo da  tempo  risalente
ha ritenuto di natura "penale"  -  ai  fini  dell'applicazione  delle
garanzie  dell'equo  processo  (art.  6  CEDU)   -   anche   sanzioni
formalmente qualificate come amministrative negli  ordinamenti  degli
Stati parte della CEDU, in base ai criteri (tra  loro  alternativi  e
non cumulativi) della natura del precetto violato  e  della  gravita'
della sanzione. 
    In particolare, secondo la Corte europea  dei  diritti  dell'uomo
una sanzione - pur qualificata come  amministrativa  nell'ordinamento
nazionale - deve essere ritenuta di natura "penale"  ai  sensi  della
Convenzione ove la norma che la commina sia rivolta alla  generalita'
dei consociati e persegua uno scopo preventivo, repressivo e punitivo
e non meramente risarcitoria e/o  ove  la  sanzione  suscettibile  di
essere inflitta comporti per l'autore dell'illecito un  significativo
sacrificio, anche di natura meramente  economica  e  non  consistente
nella privazione della liberta' personale (v. in  particolare  C.edu,
6.8.1976,  Engel  c.  Paesi  Bassi,  nonche',  inter   alia,   C.edu,
21.2.1984, Ozturk c. Germania e 1.5.2005, Ziliberberg c. Moldavia). 
    In applicazione di  tali  criteri,  nelle  sentenze  Menarini  c.
Italia  (27.9.2011,  rie.  43509/08)  e  Grande  Stevens  c.   Italia
(4.3.2014, ric. 18640/10) la Corte europea dei diritti  dell'uomo  ha
ritenuto  di   natura   "penale"   ai   sensi   dell'art.   6   CEDU,
rispettivamente le sanzioni amministrative in materia di  concorrenza
di cui all'art. 15  1.  287/1990  e  le  sanzioni  amministrative  in
materia di manipolazione del mercato di cui all'art. 187  ter  d.lgs.
58/1998. 
    In  specie,  ritiene  il  giudicante  che  le  sanzioni  previste
dall'art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003  (nella  versione  introdotta
dall'art. 1 d.lgs. 213/2004) debbano qualificarsi come "penali"  alla
luce della  giurisprudenza  della  Corte  europea.  In  primo  luogo,
infatti,  la  citata  disposizione,  rivolta  alla  generalita'   dei
consociati,  persegue  uno  scopo  non  meramente  risarcitorio,   ma
repressivo e preventivo rispetto al fenomeno del  c.d.  "sfruttamento
del  lavoro",  in  chiave  di  tutela  dell'interesse,  di  rilevanza
costituzionale  (artt.  1,  4   e   36   Cost.),   allo   svolgimento
dell'attivita'  lavorativa  secondo   tempistiche   compatibili   con
l'esigenza di recupero delle energie psicofisiche del  lavoratore  e,
in  definitiva,  secondo  modalita'   consone   alla   dignita'   del
lavoratore. 
    In secondo  luogo,  la  sanzione  astrattamente  irrogabile  puo'
raggiungere   un   rilevante   importo,    in    conseguenza    della
moltiplicazione dell'importo, compreso nella forbice edittale di 105-
630 euro, in ragione del numero di giornate di violazione. E difatti,
nella  fattispecie  oggetto  di  causa,  la  sanzione  ammonta   alla
ragguardevole cifra di euro 176.610,00. 
    Dalla natura "penale" ai sensi della CEDU delle sanzioni  di  cui
all'art. 18 bis comma  4  d.lgs.  66/2003  discende,  ad  avviso  del
giudicante, l'applicabilita' alle stesse del principio  di  legalita'
penale di cui all'art. 7 CEDU, ai sensi del quale i reati e  le  pene
debbono essere previsti dalla legge. 
    Come chiarito dalla Corte europea  dei  diritti  dell'uomo,  onde
rispettare il principio di legalita' penale, la  norma  sanzionatoria
deve avere una  "sufficiente  base  legale  nel  diritto  nazionale",
ipotesi che non ricorre quando sussista una "flagrante in  osservanza
o  arbitrarieta'  nell'applicazione"  delle  disposizioni   normative
nazionali (C.edu, 3.5.2007, Custers, Devereaux e Turk c. Danimarca, §
84).  La  carenza  di  "base  legale"  (legai  basis)   della   norma
sanzionatoria penale puo' derivare dal contrasto tra la stessa e  una
norma internazionale - incluse quelle della CEDU - o  con  una  norma
interna di rango costituzionale (cfr. C.edu, 22.3.2001,  Streletz  c.
Germania; 22.3.2001, K.-H.VV. c. Germania). 
    Dalle pronunce citate si puo' trarre la conclusione che,  poiche'
la legalita' europea non tollera sanzioni fondate su norme che  siano
chiaramente  illegittime  o  illegittimamente   applicate   al   caso
concreto, il contrasto di una disposizione  nazionale  con  la  fonte
costituzionale priva la  prima  di  "base  legale"  e  la  rende  non
legittima ai sensi dell'art. 7 CEDU. 
    Pertanto,  come  evidenziato  in  dottrina,  la  declaratoria  di
illegittimita' costituzionale della norma sanzionatrice  comporta  il
venir meno, ex tunc, della base legale (legal basis)  della  sanzione
penale comminata e la sua illegittimita' ai sensi  dell'art.  7  CEDU
(in tal senso cfr. anche Cass. pen. ord.  n.  1782/2015,  su  cui  v.
amplius infra). 
    Ora, nell'ordinamento nazionale, la disposizione che consente  di
rimuovere gli effetti della sanzione penale irrogata in  base  a  una
disposizione dichiarata costituzionalmente  illegittima  -  e  dunque
carente di base legale - anche dopo il passaggio in  giudicato  della
sentenza di condanna, e' l'art. 30 comma 4 1. 87/1953. 
    Detta disposizione, secondo la  piu'  recente  giurisprudenza  di
legittimita' penale (Cass. SU n. 42858/2014, imp. Gatto e Cass. SU n.
18821/2014  imp.  Ercolano)  impone  la  non  esecuzione  della  pena
inflitta con sentenza passata in giudicato, in caso  di  declaratoria
di illegittimita' costituzionale della norma sul  (solo)  trattamento
sanzionatorio, applicata per la determinazione della pena. 
    In proposito, la S.C.  ha  condivisibilmente  evidenziato  (sent.
42858/2014  cit.)  che,  mentre  l'introduzione  di  un   trattamento
sanzionatorio piu' mite  a  opera  del  legislatore  non  puo'  avere
effetti sulle sentenze di condanna passate  in  giudicato,  ostandovi
l'art. 2 comma 4 c.p. (e non essendo tale preclusione contraria  alla
giurisprudenza della Corte europea dei  diritti  dell'uomo,  che  nel
caso Scoppola c. Italia ha espressamente riconosciuto  nel  giudicato
un limite all'applicazione retroattiva della lex  mitior)  del  tutto
diversa  e'  la  fattispecie  della  declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale della norma sul trattamento sanzionatorio. 
    Invero, "gli effetti della  declaratoria  di  incostituzionalita'
non sono paragonabili a quelli dello  ius  superveniens,  poiche'  la
dichiarazione    d'illegittimita'    costituzionale    inficia    fin
dall'origine  [...]  la  disposizione  impugnata",  pertanto  "mentre
l'applicazione della sopravvenuta legge penale piu'  favorevole,  che
attiene alla vigenza normativa, trova un  limite  invalicabile  nella
sentenza irrevocabile, cio'  non  puo'  valere  per  la  sopravvenuta
declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale,  che  concerne   il
diverso fenomeno della invalidita' (sent. 42858/2014 cit.). 
    Ha evidenziato la SC che "la norma costituzionalmente illegittima
viene  espunta  dall'ordinamento  proprio  perche'  affetta  da   una
invalidita'  originaria.  Cio'  impone  e  giustifica  la  proiezione
"retroattiva", sugli effetti ancora in corso  di  rapporti  giuridici
pregressi, gia' da essa disciplinati, della intervenuta pronuncia  di
incostituzionalita',  la  quale  certifica   la   definitiva   uscita
dall'ordinamento di una norma geneticamente invalida. Una  norma  che
deve dunque considerarsi tamquam  non  fuisset,  percio'  inidonea  a
fondare  atti  giuridicamente  validi,  per  cui  tutti  gli  effetti
pregiudizievoli derivanti da una sentenza penale di condanna fondata,
sia pure parzialmente, sulla norma dichiarata incostituzionale devono
essere rimossi dall'universo giuridico, ovviamente nei limiti in  cui
cio'  sia  possibile,  non  potendo  essere  eliminati  gli   effetti
irreversibili perche' gia' compiuti e  del  tutto  consumati"  (sent.
ult. cit.). 
    In conclusione, poiche' secondo  la  SC,  ""il  divieto  di  dare
esecuzione ad una pena prevista da una norma  dichiarata  illegittima
dal Giudice delle leggi e' [...] un principio di rango  sovraordinato
- sotto il profilo  della  gerarchia  delle  fonti  -  rispetto  agli
interessi sottesi all'intangibilita' del giudicato", "successivamente
a  una  sentenza   irrevocabile   di   condanna,   la   dichiarazione
d'illegittimita' costituzionale di una  norma  penale  diversa  dalla
norma incriminatrice, idonea a mitigare il trattamento sanzionatorio,
comporta  la  rideterminazione  della  pena,  che   non   sia   stata
interamente espiata, da parte  del  giudice  dell'esecuzione"  (sent.
ult. cit.). 
    Venendo al caso  di  specie,  la  qualificazione  delle  sanzioni
oggetto di causa come "penali" ai sensi della CEDU, e la  conseguente
non conformita' delle stesse all'art. 7 CEDU  per  carenza  di  legal
basis (stante la declaratoria di illegittimita' costituzionale  della
norma sanzionatoria di cui all'art. 18 bis comma  4  d.lgs.  66/2003)
comporta, ad avviso del giudicante, la necessita'  che  l'ordinamento
consenta  di  rimuoverle,  nonostante  il  passaggio   in   giudicato
dell'accertamento prodromico all'irrogazione delle stesse. 
    Sennonche',  l'unico  strumento  utilizzabile  per  rimuovere  le
sanzioni in oggetto - ossia  l'art.  30  comma  4  1.  87/1953  -  si
riferisce  (come  piu'  diffusamente  argomentato  infra)  alle  sole
sanzioni penali intese nel senso "stretto" previsto  dall'ordinamento
italiano, e non  alle  sanzioni  amministrative  che  abbiano  natura
"penale" ai sensi della CEDU. 
    Proprio perche' l'art. 30 comma 4 non si  applica  alle  sanzioni
amministrative qualificabili come "penali" ai sensi della CEDU, detta
disposizione si pone in  contrasto  con  i  parametri  costituzionali
interposti di cui agli artt. 6 e 7  CEDU  e,  per  il  loro  tramite,
dell'art. 117 comma 1 Cost. 
    Come  prospettato  dalla  parte  opponente  nelle  proprie   note
difensive dell'8.1.2015, sussiste altresi' il contrasto dell'art.  30
comma 4 1. 87/1953, nella parte  in  cui  limita  il  proprio  ambito
applicativo alle sanzioni qualificate  come  penali  dall'ordinamento
interno, con l'art. 25 comma 2 e l'art. 3 Cost. 
    Dalla qualificazione come  "penali"  delle  sanzioni  oggetto  di
causa nel sistema delineato dalla  Convenzione  europea  dei  diritti
dell'uomo dovrebbe coerentemente  derivare  infatti,  ad  avviso  del
giudicante, l'estensione a dette  sanzioni  delle  garanzie  previste
dall'ordinamento interno per le sanzioni qualificate come penali  dal
diritto nazionale, tra cui  anche  l'art.  30  comma  4  1.  87/1953,
disposizione che, consentendo la retroattivita' degli  effetti  della
dichiarazione  di  incostituzionalita'  anche  oltre  il  limite  del
giudicato, costituisce stretta attuazione del precetto  dell'art.  25
comma 2 Cost. secondo cui "nessuno puo' essere punito se non in forza
di una legge che sia entrata in  vigore  prima  del  fatto  commesso"
(sulla qualificazione dell'art. 30 comma  4  cit.  come  disposizione
attuativa dell'art. 25 comma 2 Cost. v. Cass. pen. N. 977/2011,  imp.
Hauohu). 
    Ed invero, come sottolineato dalla  parte  opponente  nelle  note
difensive, se una norma incostituzionale e' da considerarsi come  mai
venuta in essere nell'ordinamento, qualunque sanzione che  derivi  da
essa non puo' ritenersi irrogata in base  ad  una  legge  entrata  in
vigore prima del fatto commesso. 
    Difatti, secondo la S.C., i principi costituzionali che  regolano
l'intervento   repressivo    penale    «impediscono    di    ritenere
costituzionalmente giusta, e percio' eseguibile, anche  soltanto  una
frazione della pena, se essa consegue all'applicazione di  una  norma
contraria a Costituzione" (sent. ult. cit.). 
    Ora, posto che le sanzioni ex art. 18 bis comma 4 d.lgs. 66/2003,
se prese in considerazione nel sistema della Convenzione europea  dei
diritti  dell'uomo,  assumono   la   natura   di   sanzioni   penali,
l'inapplicabilita' dell'art. 30 comma  4  1.  87/1953  ridonda  nella
violazione  dell'art.  25  comma  2   Cost.,   in   quanto   comporta
l'esecuzione di una "pena" conseguente all'applicazione di una  norma
contraria alla Costituzione e, pertanto, non valida gia'  al  momento
della commissione del fatto. 
    Risulta altresi' violato l'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo
dell'ingiustificata disparita' di trattamento di situazioni  analoghe
e della ragionevolezza. 
    Come osservato dalla parte opponente, consentire  il  superamento
del giudicato, al fine di garantire l'applicazione in  via  esecutiva
di un trattamento sanzionatorio piu' mite, solo per  quelle  norme  -
colpite  da  declaratoria  di  incostituzionalita'  -  che  comminino
sanzioni formalmente qualificate come penali e non anche  per  quelle
norme che irroghino sanzioni che,  formalmente  qualificate  in  modo
diverso, abbiano in realta' natura penale,  significherebbe  trattare
situazioni sostanzialmente identiche (sanzioni formalmente  penali  e
sanzioni  sostanzialmente   penali)   in   maniera   difforme   senza
un'effettiva, o ragionevole giustificazione. 
    Non ritiene  invece  il  giudicante  di  sollevare  eccezione  di
legittimita'  costituzionale,  per  violazione  dell'art.  3   Cost.,
dell'art.  1  l.  689/1981,  nella  parte  in  cui  non  prevede   la
retroattivita' della lex mitior per le sanzioni amministrative,  come
invece prospettato in via subordinata dall'odierna parte opponente. 
    Pare infatti al giudicante che, come chiarito dalla piu'  recente
giurisprudenza di legittimita' (v. sent. 42858/2014 cit.: v.  supra),
la  problematica  dell'applicazione  retroattiva  della  legge   piu'
favorevole  rimanga  distinta  rispetto   a   quella   dell'efficacia
retroattiva della declaratoria di illegittimita' costituzionale - con
eventuale reviviscenza del trattamento  sanzionatorio  piu'  mite  in
precedenza previsto - e, pertanto, non sia rilevante  nella  presente
controversia. 
    Non si ritiene, infine, che l'evidenziato contrasto dell'art.  30
comma 4 1. 87/1953 con l'art. 117 comma 1 (in relazione agli artt.  6
e 7 CEDU), l'art. 25 comma 2 e 3 l'art. Cost.  possa  essere  risolto
attraverso  un'interpretazione  dell'art.  30  comma  4  1.   87/1953
conforme alla CEDU e ai parametri costituzionali. 
    Non  ignora  il  giudicante  che,  nella  recente  ordinanza   n.
1782/2015 (di rimessione alla Corte  costituzionale  per  prospettata
illegittimita' degli artt. 187 bis  comma  1  d.lgs.  58/1998  e  649
c.p.c, per violazione degli artt. 117 comma 1 Cost. e 4 Protocollo n.
7 alla CEDU) la Corte di cassazione ha  affermato  che,  in  caso  di
declaratoria di illegittimita' costituzionale della base legale della
sanzione amministrativa pecuniaria irrogata ex art. 187 bis,  sarebbe
possibile l'applicazione diretta dell'art.  30  comma  4  1.  87/1953
sulla base di una interpretazione "convenzionalmente orientata" della
disposizione, imposta dalla natura "penale", ai sensi della CEDU,  di
detta sanzione. 
    Va tuttavia evidenziato  che  la  tesi  dell'applicabilita'  alle
sanzioni amministrative del disposto dell'art. 30  comma  4  cit.  e'
stata  per  la  prima  volta  -  a  quanto  consta  al  giudicante  -
prospettata  dalla  SC  nella  citata  ordinanza,  in  via  meramente
ipotetica (non essendo alcuna declaratoria di legittimita' allo stato
intervenuta) e  al  solo  fine  di  evidenziare  la  rilevanza  della
questione di legittimita' sollevata dalla SC. 
    Non constano altre pronunce conformi all'ordinanza n.  1782/2015,
mentre risulta un, pur risalente, precedente di segno  contrario  (v.
Cass. civ. sez. III n. 458/1994: "l'art. 30 comma 4, l. 11 marzo 1953
n. 87, laddove stabilisce che  quando  in  applicazione  della  norma
dichiarata   incostituzionale   e'   stata    pronunciata    sentenza
irrevocabile di condanna, ne cessano l'esecuzione e tutti gli effetti
penali, non puo' trovare applicazione al di fuori del campo penale  e
quindi con riferimento a sanzioni di natura amministrativa"). 
    Pertanto, la tesi prospettata da  Cass.  pen.  N.  1782/2015  non
possiede  quei  caratteri  di  stabilita'  e  consolidamento  atti  a
qualificarla   come   "diritto   vivente"   idoneo   a    determinare
l'inammissibilita'   della   presente   questione   di   legittimita'
costituzionale. 
    Cio'  posto,  ritiene   il   giudicante   che   l'interpretazione
convenzionalmente e costituzionalmente conforme trovi un  limite  nel
tenore letterale della disposizione di legge da interpretare  (v.  in
tal senso Corte  cost.  sentenze  n.  91  e  232/2013;  ordinanza  n.
112/2013: «l'univoco tenore della norma segna il confine in  presenza
del quale  il  tentativo  interpretativo  deve  cedere  il  passo  al
sindacato di legittimita' costituzionale»). 
    Se l'interpretazione adeguatrice deve svolgersi secondo i  canoni
ermeneutici di cui all'art. 12 delle Preleggi, quando  l'attribuzione
di un significato al testo, che rispetti  il  senso  letterale  della
legge, produca una norma  non  oscura  o  non  assurda,  e'  preclusa
un'interpretazione  diversa  da   quella   letterale,   non   essendo
ammissibile l'interpretazione integrativa o correttiva. 
    In specie, come  gia'  ritenuto  dalla  S.C.  (sentenza  458/1994
cit.), il tenore letterale dell'art.  30  comma  1  1.  87/1953,  che
discorre di " sentenza irrevocabile  di  condanna"  e  di  "  effetti
penali" rende  chiaro  che  la  disposizione  si  applica  solo  alle
sanzioni qualificate come penali nell'ordinamento interno.  Anche  il
riferimento al canone  ermeneutico  dell'intenzione  del  legislatore
avvalora tale tesi, per la semplice constatazione che, alla  data  di
promulgazione della legge  n.  87/1953,  l'Italia  non  aveva  ancora
ratificato   la   CEDU,   ne'   si    era    prodotta    l'evoluzione
giurisprudenziale che avrebbe  condotto  la  Corte  di  Strasburgo  a
qualificare   come   "penali"   talune    tipologie    di    sanzioni
amministrative. 
    A fronte di tale,  chiaro  dato  letterale,  non  pare  possibile
estendere, in via di interpretazione conforme,  l'ambito  applicativo
dell'art. 30  comma  4  1.  87/1953  alle  sanzioni  formalmente  non
qualificate  come  penali  nell'ordinamento  interno,  anche  se   da
qualificarsi come tali secondo i parametri della CEDU. 
    Non induce, infine a una diversa conclusione la  circostanza  che
il d.lgs. 66/2003 sia stato adottato in  attuazione  delle  direttive
93/104/CE e 2000/34/CE concernenti taluni aspetti dell'organizzazione
dell'orario di lavoro, in quanto il denunciato contrasto dell'art. 30
comma 4 1. 87/1953 con l'art. 117 comma 1 (in relazione agli artt.  6
e 7 CEDU), l'art. 25 comma 2  e  l'art.  3  Cost.  non  determina  la
necessita' di disapplicare la disposizione in questione, ma,  semmai,
quella di estenderne  l'ambito  applicativo  a  fattispecie  ivi  non
incluse. Pertanto, la circostanza la disciplina  del  d.lgs.  66/2003
sia attuativa del diritto UE non muta i termini della questione - che
non si risolve in un mero problema  di  disapplicazione  del  diritto
interno contrastante con la fonte sovranazionale (artt. 6 e  7  CEDU,
principi generali del diritto UE ex art. 6  TUE)  -  ne'  elimina  la
necessita' di sollecitare l'intervento della Corte costituzionale. 
    Avendo  dato  esito  negativo  il  tentativo  di  interpretazione
conforme,  e  non   essendo   possibile   fare   applicazione   della
disposizione ritenuta in contrasto con la CEDU e la Costituzione,  va
sollevata questione di legittimita'  costituzionale,  per  violazione
dell'art. 117 comma 1 (in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU), dell'art.
25 comma 2 e dell'art. 3 Cost. dell'art. 30 comma 4 1. 87/1953, nella
parte in cui lo stesso non prevede  la  propria  applicabilita'  alle
sentenze irrevocabili con le quali e'  stata  inflitta  una  sanzione
amministrativa qualificabile come "penale" ai sensi della  CEDU  (nel
caso di specie, la sanzione prevista dall'art. 18 bis comma 4  d.lgs.
66/2003, nella versione introdotta dall'art. 1 d.lgs. 213/2004). 

(1) Non vengono in rilievo nella presente fattispecie  le  successive
    modifiche all'art.  18  bis  introdotte  dall'art.  41  del  D.L.
    112/2008  conv.  in  l.  133/2008,  dall'art.  7  l.  183/2010  e
    dell'art. 14, comma 1,  lettera  c),  DL  145/2013  conv.  in  l.
    9/2014.